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Improvvisazione flamenca nel Tablao e ruolo del pubblico


Improvvisazione flamenca nel Tablao e ruolo del pubblico
IL BLOG DELLA DANZA DI PHOENIX STUDIO DANCE

Quando la magia del flamenco accade all’interno di un’improvvisazione nel tablao, il ruolo del pubblico risulta anch’esso essenziale.

C’è un momento, nel tablao, in cui il tempo perde la sua forma. Le dita schioccano, le palmas si intrecciano, il cante graffia e consola, il baile taglia l’aria come un coltello lucido. In quel momento, ciò che accade non è semplicemente uno spettacolo: è un dialogo. Non un dialogo preparato, scolpito in partitura, ma un parlare insieme—artisti e pubblico—che si costruisce nell’istante.

Il flamenco vive di questa conversazione improvvisa, di una memoria che si aggiorna continuamente grazie a chi ascolta e a chi danza, a chi canta e a chi guarda. Non è un caso che tante parole-chiave del flamenco parlino di presenza: duende, compás, remate, llamada. Sono termini che più che definire cose, indicano eventi, accadimenti; e ogni accadimento è possibile solo grazie a una rete di sguardi, respiri, micro-segnali, jaleos e silenzi.

In queste pagine esploreremo il ruolo del pubblico e dell’improvvisazione nel tablao, mostrando come interazione, scambio di energia, rischio e ascolto si combinino per generare quella qualità sfuggente che chiamiamo “magia”. Lo faremo con un linguaggio essenziale, quasi a mano, cercando il passo naturale del racconto: da dove nasce la tensione, come si trasmette, come si scioglie; quali strumenti pratici usano gli artisti; come il pubblico, con la sua semplice presenza attenta, può nutrire la performance.

Il tablao come luogo del rischio: vicinanza e compás

Il tablao è un piccolo teatro senza la distanza del teatro. È una stanza che ascolta, un pavimento che vibra, una luce calda che non perdona e non nasconde. Nel tablao i corpi sono vicini: non esiste il “quarto muro”; esiste uno spazio condiviso in cui ogni gesto è udito e visto in presa diretta. Questa vicinanza è la condizione del rischio e del miracolo.

Il rischio nasce perché l’improvvisazione non è un’abdicazione alla forma, ma il suo contrario: è aderenza radicale al compás, cioè alla pulsazione che governa ogni palo (Soleá, Bulerías, Tangos, Siguiriyas, Alegrías…). L’artista non “fa quello che vuole”: ascolta ciò che accade e “sceglie” all’istante la risposta giusta; e la risposta giusta è quella che apre l’udito degli altri, che accende il cante, che accoglie una falseta alla chitarra, che stana il duende.

Eppure, in questo equilibrio, il pubblico è un partner. La sua energia—lo si sente immediatamente—può portare la danza a un remate più deciso, il cante a un quiebro più coraggioso, la chitarra a un cierro più tagliente. Il pubblico non “decide” la forma, ma colora il suo svolgersi. L’artista, in un tablao, non è un monologo: è un orecchio in movimento.

  • Il tablao in quattro tratti essenziali
    • Prossimità: lo spettatore è dentro l’onda del suono; sente la terra sotto i tacchi, vede il respiro.
    • Acustica viva: legno e corpo amplificano il ritmo; le palmas si intrecciano alla chitarra senza filtri.
    • Luce tattile: la luce non crea distanza ma intensifica il dettaglio—sguardi, mani, sudore.
    • Compás come legge: la libertà nasce da qui; ogni deviazione è senso, mai capriccio.

L’energia del pubblico: jaleos, silenzi e ascolto condiviso

Il pubblico di un tablao non è la folla indistinta di un concerto; è una comunità temporanea. Entra come spettatore, ma diventa testimone e, talvolta, complice. La sua energia si misura in modi diversi: nel calore degli applausi e nella qualità del silenzio, nell’intelligenza dei jaleos, perfino nella respirazione collettiva che rallenta o accelera di fronte a un passo trattenuto, a una escobilla che cresce.

L’artista percepisce questa qualità come una temperatura dell’aria. Se l’aria è tiepida e attenta, il baile si prende il tempo di “dire”; se è elettrica, la bulería salirà presto di giri. Se l’aria è distratta, l’artista lotta per far nascere l’ascolto, spesso scegliendo la via della sottrazione: un remate asciutto, un silencio di chitarra, una pausa che chiede presenza.

  • Quattro forme di partecipazione emotiva del pubblico
    • Jaleos consapevoli: “¡Olé!”, “¡Eso es!”, justo sul remate—mai prima, mai sopra la voce.
    • Palmas misurate: non invadere il compás, ma appoggiarlo; la palmas del pubblico non è il coro, è cornice.
    • Silenzio attivo: trattenere il respiro nel silencio prima di una llamada vale quanto un applauso.
    • Sguardo presente: seguire passaggi, mani, sponde; vedere è dare energia.

Questa educazione dello sguardo e dell’orecchio non è un codice elitario. È, piuttosto, una pratica d’ascolto, una disciplina del cuore. Quando il pubblico entra in questo stato, la performance si alza come una vela che prende vento. I musicisti e i bailaor(es) sentono letteralmente il sostegno dell’attenzione, e l’improvvisazione diventa più audace, più vernacolare, più vera.

Cante e baile in improvvisazione: il laboratorio dell’istante

Uno dei malintesi più diffusi è pensare che improvvisazione significhi assenza di struttura. Nel flamenco, invece, l’improvvisazione è maestria della forma: possedere talmente bene il linguaggio da poterlo piegare senza spezzarlo. Ciò che vediamo sul tablao è una grammatica viva—il cante e il baile si lanciano segnali e li trasformano in frasi, periodi, paragrafi emotivi.

Il cantaor ascolta il baile e decide se allungare o stringere una letra, se modulare un ayeo, se spingere toward la quejío; la bailaora sente quel respiro e disegna una escobilla che non “illustrerà” la voce, ma le offrirà un’architettura. La chitarra, con le sue falsetas, è ponte fra i due: prepara terreno, apre porte, chiude spiragli, offre cierres quando serve atterrare.

A livello tecnico, l’improvvisazione si articola in momenti riconoscibili: salida, llamada, letras, escobilla, silencio, bulerías de cierre (quando il palo lo consente). La llamada, in particolare, è il campanello con cui la danza chiama il cante, o chiede alla chitarra di cambiare sezione; è un segnale potente, spesso un contratempo che domanda risposta. Il remate è la parola che chiude la frase; il cierro è la porta che conclude il discorso.

  • Strumenti d’improvvisazione su cui si costruisce il dialogo
    • Llamadas: richiami che convocano il cambio; chi chiama si prende responsabilità del prossimo passo.
    • Remates: chiodi che fissano il legno—danno senso, danno peso, rendono memorabile.
    • Falsetas: frasi di chitarra: non ornamento, ma argomentazione musicale che guida la drammaturgia.
    • Cierres: soglie da oltrepassare insieme; chiude una sezione e apre l’attesa della prossima.

Da fuori, può sembrare una tempesta. Da dentro, è ordine dinamico. Ciascuno conosce la lingua, ma non esistono due conversazioni uguali: per questo ogni sera il tablao è prima volta.

Ascolto reciproco: segnali, errori fecondi e duende

Nel tablao, l’ascolto non è una virtù astratta: è una tecnica corporea. L’angolo di una spalla, un accenno degli occhi, un piede che resta a mezz’aria: sono micro-segnali che dicono “adesso”, “aspetta”, “vengo io”. Il buon flamenco vive di questi dettagli.

Chi guida? Dipende. Talvolta è il cante a imporre la mappa emotiva; talvolta la bailaora decide di tagliare una sezione per scoprire se nella frontera c’è fuoco; talvolta la chitarra, con una falseta imprevedibile, raccoglie tutti e li porta in un paesaggio inatteso. Il segreto sta nel fidarsi di chi ha appena parlato: non sovrapporre, non coprire, non spiegaresostenere.

Qui, gli “errori” diventano fecondi. Un ingresso anticipato, una palmas un po’ sfalsata, un jaleo fuori asse: se il gruppo ha ascolto, l’errore si trasforma in spunto. È la natura dell’arte viva: l’accadere eccedente che non era previsto, e che proprio per questo sposta la serata da “buona” a “indimenticabile”.

Il duende—parola enorme e impronunciabile fino in fondo—non è una sostanza mistica, ma l’effetto di questa attenzione reciproca. Arriva quando tutto è a rischio, quando la precisione tecnica non basta, e allora entra qualcosa che affonda più in basso: una necessità. Il pubblico la riconosce senza bisogno di dizionario: un brivido, silenzio pieno, lacrime improvvise, la pelle che mette i puntini. Nessuna coreografia può garantire il duende; ma una comunità in ascolto può invitarlo.

  • Quattro “discipline dell’ascolto” per chi sta sul palco
    • Guardare prima di fare: la decisione nasce dopo aver sentito gli altri.
    • Lasciare spazio: non riempire ogni secondo; il silencio è materiale musicale.
    • Riconoscere il segnale: llamada chiara, remate pulito, cierro condiviso.
    • Accogliere l’imprevisto: non “coprire” l’errore, trasformarlo in opportunità.

Apprendere e trasmettere: dalla tradizione alle classi di flamenco italiane

Il flamenco si apprende con il corpo, attraverso pratica, ascolto e comunità. La lezione, il tablao, il juerga familiare: ognuno di questi luoghi insegna qualcosa di diverso. Nelle lezioni si costruisce il vocabolario—braceo, zapateado, marcajes, variazioni di compás; nel tablao si impara la responsabilità dell’istante; nelle riunioni informali si respira la lingua madre del flamenco, il suo rapporto con il quotidiano.

Oggi questa trasmissione passa anche per contesti fuori dall’Andalusia, dove il flamenco è diventato una lingua adottiva—parlata con rispetto, curiosità, dedizione. In questo orizzonte si muovono anche le scuole di flamenco italiane, realtà vivaci che negli ultimi anni hanno curato non solo la tecnica ma anche l’educazione all’ascolto: studiare compás, capire quando parlare, quando tacere, come sostenere una letra con la postura e con il respiro.

Per chi studia, l’improvvisazione non è l’ultimo capitolo, ma una competenza che cresce in parallelo alla forma: si prova la llamada, si esercitano remates diversi su palos differenti; si allena l’orecchio—più ancora che il piede—perché improvvisare è dire una cosa necessaria, non sfoggiare virtuosismo.

  • Quattro pratiche concrete per studenti e pubblico
    • Allenare il compás: metronomo, palmas, ascolto delle falsetas; il tempo va abitato.
    • Studiare i segni: imparare a leggere e dare llamadas, capire i cierres.
    • Coltivare il silenzio: riconoscere quando non intervenire—vale per chi danza e per chi guarda.
    • Vivere il tablao come aula: tornare più volte, osservare le differenze tra una sera e l’altra.

La trasmissione, in fondo, è cura. Cura della lingua, del corpo, dell’etica della scena: ascoltare per parlare meglio, aspettare per dire giusto, rischiare per fare spazio al vero. Chi frequenta il tablao lo sa: si entra da spettatori e si esce un po’ fedeli.

la magia flamenca che accade tra noi

Quando diciamo che un tablao è stato “magico”, intendiamo qualcosa di molto semplice e molto difficile: la coincidència tra necessità e forma. Il pubblico ha dato ascolto, gli artisti hanno osato nel compás, gli errori hanno aperto porte, il duende ha posato la sua mano. Non si tratta di effetti speciali, ma di un miracolo artigianale—fatto di legno, carne, voce, pelle d’oca.

Il flamenco non spiega; accade. Accade davanti a noi quando noi accettiamo di farne parte: non pretendendo la versione che avevamo in testa, ma accompagnando quella che nasce lì, sotto i nostri occhi. Il pubblico allora diventa co-autore: con un jaleo giusto, con una palmas contenuta, con un silenzio che tiene. Gli artisti, dal canto loro, non si accontentano della sicurezza: entrano nella zona del rischio, dove l’improvvisazione non è capriccio, ma cura del presente.

Se c’è una lezione che il tablao offre, è questa: la vita—come il flamenco—non è un copione da recitare, è una forma da abitare. E abitarla bene significa ascoltare, resistere alla fretta, rischiare con misura, riconoscere il compás che ci tiene insieme. Quando tutto questo si allinea, succede la cosa più semplice: sentiamo. Sentiamo che il colpo del tacco è nostro, che il quejío ci strappa via qualcosa di superfluo, che la chitarra ci riporta a casa.

E allora capiamo perché, uscendo nella notte dopo un grande tablao, camminiamo più leggeri: non perché la magia sia avvenuta sul palco, ma perché è avvenuta tra noi. Nell’andare e venire di un’energia che non appartiene a nessuno e che, proprio per questo, ci appartiene a tutti.


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